L’Africa del dottor Giorgio Carbone
Sono in tanti i professionisti, i medici e gli studenti di Humanitas che hanno aderito a progetti di volontariato e/o impegno pubblico per la salute globale nei Paesi più poveri del mondo.
Tra questi, il dottor Giorgio Carbone, responsabile di Medicina e Chirurgia d’urgenza di Humanitas Gradenigo (Torino) e docente dell’Università degli studi di Torino (Dipartimento di Scienze della Sanità Pubblica e Pediatriche), la cui esperienza in Africa – Eritrea, Congo, Kenya e Uganda – è lunga dieci anni ed è piena di storie straordinarie da raccontare. “Il mio legame con l’Africa – spiega Carbone – è nato da semplice turista e viaggiatore, per diventare poi una parte importante della mia vita e del mio lavoro di medico”.
Farina per i bambini
L’esordio come volontario in Africa del dottor Carbone avviene nel 2004 a Keren, città di 75mila abitanti situata nel cuore dell’Eritrea. “Era un ospedale diurno, gestito dalle suore vincenziane. Faceva anche da consultorio e dispensario e chiudeva alle sei del pomeriggio – racconta il medico. Ci sono tornato altre due volte, adoperandomi per realizzare, non senza difficoltà, una serie di progetti di cui mi ero fatto carico, confidando sul sostegno delle allora nascenti Onlus. Insieme a queste, infatti, abbiamo raccolto denaro, vestiti, libri, ma soprattutto abbiamo potuto acquistare (per 25 mila euro) farina nutrizionale da destinare ai bambini denutriti. Questo prezioso alimento, che avrebbe coperto il fabbisogno di un intero anno di tutto il Paese, proveniva dall’India del Sud; era stato imbarcato su di un enorme container e scaricato presso il porto di Massaua, per poi essere consegnato a una scuola di Dekemhare”.
La vita da volontario in Eritrea
La vita di tutti i giorni in terra eritrea si svolgeva in perfetta sintonia con l’esperienza di volontario: “Si mangiava solo zighinì, uno spezzatino di carne con verdure cotte e, quando andava bene, la carne di cammello”, ricorda il dottor Carbone. Il medico dormiva nell’abitazione delle suore, che “erano in tutto sette e svolgevano attività sanitaria e para-sanitaria all’interno dell’ospedale diurno. Insieme ci occupavamo dei bambini e di tutti quelli che passavano di lì: dall’educazione alimentare a quella puerperale, dalla manutenzione della casa ai consigli su come tenere il pollaio”.
In Congo, come Conrad in Cuore di Tenebra
Ma è nell’estate del 2009 che il dottor Carbone vive la sua esperienza africana più significativa e intensa: un mese e mezzo a Bikoro, piccolo villaggio sul lago N’Tumba, nella provincia equatoriale della Repubblica Democratica del Congo, in piena foresta pluviale (con il primo centro abitato a cinque ore, da raggiungere a bordo di una jeep), senza luce, telefono, acqua corrente.
“Non dimenticherò mai il Congo – confida il medico. Mi sentivo come Conrad in Cuore di Tenebra, con accanto il fiume Congo, gigantesco e turbolento come un torrente di montagna. Alloggiavo sulla riva del lago, dove si formavano onde alte due-tre metri provocate dalla pioggia e dal vento. Altro che lago! Lì se ti trovi in difficoltà “ci lasci le penne”. Comunicavamo via radio una volta al giorno e per pochi minuti con altri ospedali, giusto il tempo per far sapere se avevamo bisogno o se era successo qualcosa. La strada per raggiungere Mbandaka era sterrata, con ai margini l’acqua abitata da ogni tipo di insetto o di animale, cobra compresi. Bevevamo solo acqua piovana, filtrata e bollita”.
L’attività ospedaliera in Congo
L’ospedale congolese è stato costruito dai belgi negli anni ‘20. “Così l’avevano costruito e così era rimasto – racconta il dottor Carbone. La sala operatoria funzionava grazie a un piccolo generatore che permetteva di eseguire gli interventi per poche ore solo la mattina. Non esisteva alcun tipo di sterilità e il lettino operatorio aveva un’imbottitura di paglia che fuoriusciva da tutte le parti. Il laboratorio eseguiva solo cinque esami, tra cui il test rapido per l’HIV, mentre le trasfusioni erano possibili solo dal parente più stretto al malato. Il tecnico di laboratorio era un infermiere: sistemato in un banchetto in mezzo al prato, che separava l’ospedale dalla giungla, esaminava i vetrini con i campioni di feci e di sangue con un vecchio microscopio la cui fonte luminosa era il sole”.
I pazienti, pigmei che andavano a caccia nella foresta con arco e frecce, sempre seminudi, presentavano storie e patologie disparate. “Tutti i giorni – prosegue il medico – ci prendevamo cura sia dei ricoverati, sia di chi arrivava da fuori, spesso persone che avevano marciato per giorni nella giungla. Ogni giorno moriva un bambino di malaria, tifo o diarrea. Ho visto i miei primi casi di Ebola e di Monkeypox, il contagioso vaiolo delle scimmie che depigmenta l’epidermide lasciando vistose chiazze bianche sulla pelle nera, ma anche individui colpiti dalla tripanosomiasi, più nota come malattia del sonno per via della puntura della mosca tse-tse, che curavamo con derivati arsenicali endovena, proprio come si faceva cento anni fa”.
Le suore vicenziane
Anche a Bikoro, come a Keren, c’erano le suore vincenziane, esempi di forza e volontà. “Con me ce n’erano quattro – ricorda il dottor Carbone. Una suora basca, che faceva la ginecologa ed eseguiva interventi chirurgici; una catalana, che si occupava della gestione e amministrazione; una congolese, designata alla distribuzione dei farmaci; una parigina di settant’anni (senza un occhio) che aveva trascorso ventotto anni da sola nei villaggi della foresta vietnamita e da venticinque stava in Congo. Si era tolta l’abito e prestava il suo aiuto ai villaggi; si occupava dei bambini denutriti, autentici scheletri viventi che ricordavano i deportati nei campi di concentramento (a otto anni ne dimostravano due)”.
La situazione drammatica in Congo
L’attività sanitaria del dottor Carbone e delle suore poteva contare solo su pochi farmaci, pochissimi antibiotici, nessuna radiografia né elettrocardiogramma. Una situazione drammatica, fronteggiata con una serie di progetti che hanno fruttato circa 600mila euro, grazie anche agli sms solidali. “Abbiamo realizzato una casa accoglienza a Kinshasa per i cosiddetti “enfants sorciers”, bambini rimasti orfani che, per sopravvivere, eseguivano riti voodoo. In questo modo, per fortuna, li abbiamo tolti dalla strada”, informa il dottore.
Le esperienze in Kenya e Uganda
Le altre due esperienze di volontariato in Africa del dottor Carbone, vissute dal 2011 al 2013 in Kenya (a Chaaria, vicino a Meru) e in Uganda, sono state meno travolgenti di quella congolese.
“Quello keniano – spiega il dottore – era un ospedale rurale, costruito in mezzo al nulla, lontano dalla foresta, ed era più organizzato grazie all’opera di Fratel Beppe, un infettivologo del Cottolengo, che in Africa aveva imparato a fare di tutto, dall’ortopedico al ginecologo. Io mi occupavo giorno e notte dei pazienti esterni ed ero il secondo in sala operatoria. Avevamo circa dieci urgenze chirurgiche al giorno, notte compresa. Nel weekend gli abitanti di Chaaria “si davano regolarmente di panga” (tipico coltello da giungla del Kenya, simile al machete) e arrivavano in ospedale con squarci pazzeschi”.
L’ospedale di Chaaria disponeva di macchinari per eseguire l’endoscopia e le ecografie, di sale operatorie con strumentazione, di due reparti di Medicina (uno maschile e uno femminile) e di un ambulatorio di Pediatria.
“È stata un’esperienza gratificante dal punto di vista medico – dichiara Carbone. Lavoravo in un ospedale rurale africano con un minimo di organizzazione europea. In quei tre anni ho collaborato con chirurghi, infermieri, internisti, e il nostro lavoro ha contribuito a realizzare due nuovi reparti, uno di maternità e l’altro di chirurgia”.
“Infine, sono stato per una settimana in Uganda, a Kalongo, vicino a Gulu – conclude il dottor Carbone – con l’incarico di preparare una relazione sugli interventi da fare in una struttura che aveva moltissimi pazienti, una discreta attrezzatura, ma una mediocre organizzazione”.