Il dottor Antonio D’Alessio è vincitore del premio ASCO per i risultati promettenti dell’immunoterapia nel carcinoma epatocellulare
La Società Statunitense di Oncologia Medica (ASCO) ha deciso di premiare Antonio D’Alessio, specializzando in oncologia presso l’Humanitas University, per i promettenti risultati sull’efficacia dell’immunoterapia somministrata nelle fasi precoci del tumore al fegato. Grazie a tale premio, il dottor D’Alessio potrà presentare il suo lavoro al congresso annuale dell’ASCO, il più rinomato congresso di oncologia a livello mondiale, che si terrà a Chicago tra il 3 e il 7 giugno 2022.
Attualmente, il dottor D’Alessio, sotto la supervisione del dottor David James Pinato, oncologo e ricercatore, sta approfondendo i suoi studi sull’utilizzo dell’immunoterapia nel trattamento del tumore al fegato all’Imperial College di Londra, grazie alla vincita della borsa di studio messa in palio dalla European Association for the Study of the Liver. A guidare Antonio nella scelta di approfondire lo studio del carcinoma epatico è stata la sua mentore, la prof.ssa Lorenza Rimassa direttrice della Scuola di Specializzazione di Oncologia Medica di Humanitas University e rinomata esperta internazionale di tumori al fegato.
«L’innovazione del mio progetto – spiega Antonio D’Alessio – risiede nel tentativo di portare l’utilizzo dell’immunoterapia nelle fasi precoci del tumore al fegato, in particolare nel carcinoma epatocellulare.
Attualmente, infatti, viene somministrata solo nei pazienti con tumore al fegato in fase metastatica o comunque molto avanzata. Quando, invece, si diagnostica un tumore in fase precoce si interviene chirurgicamente per rimuoverlo; la chirurgia è un trattamento radicale e potenzialmente curativo, ma purtroppo il rischio di recidivare interessa fino al 70% dei soggetti. L’obiettivo del mio progetto di ricerca è quello di somministrare l’immunoterapia prima della chirurgia, in modo tale da ridurre, auspicabilmente, sia la massa tumorale che verrà asportata chirurgicamente, sia la percentuale di pazienti recidivanti».
A differenza della chemioterapia tradizionale, che si basa sull’uso di sostanze «tossiche» che uccidono le cellule e possono provocare effetti avversi diffusi, il trattamento immunoterapico serve a stimolare il sistema immunitario così che possa reagire per combattere il tumore. «Nel nostro protocollo immunoterapico – prosegue D’Alessio –, effettuiamo due somministrazioni di anticorpi endovena a distanza di tre settimane l’una dall’altra, a seguito delle quali il paziente viene operato. Si tratta di un protocollo ben tollerato e per nulla pesante, né come tempistiche, né come effetti collaterali, e consente di non ritardare eccessivamente la chirurgia, mantenendo allo stesso tempo il tumore sotto controllo. Nei pazienti che finora hanno preso parte al protocollo, circa una ventina, prevalentemente maschi e con età media 65 anni, i risultati ottenuti sono molto promettenti. Con due sole somministrazioni di immunoterapia nessun paziente progredisce, indice di un’ottima capacità dell’immunoterapia di controllare il tumore in fase precoce. Inoltre, in una buona percentuale il tumore si riduce, in modo tale che l’operazione chirurgica sia meno invasiva e più conservativa. In altri casi, invece, il tumore scompare del tutto. La chirurgia, essendo il trattamento standard per i tumori epatici in fase precoce, è comunque prevista».
Il tumore al fegato può insorgere per consumo di alcol, epatite virale o per condizioni metaboliche come sovrappeso, obesità o diabete.
«Nella comunità scientifica – spiega Antonio D’Alessio, si è visto che i tumori con origine virale possono rispondere meglio all’immunoterapia. Questi dati, tuttavia, esistono solo sulla malattia avanzata metastatica, per la quale al momento si fa immunoterapia su larga scala. Per comprendere quali pazienti con carcinoma epatocellulare potrebbero rispondere meglio all’immunoterapia, nel nostro protocollo stiamo cercando biomarcatori che possano predire la risposta all’immunoterapia in vari campioni biologici come tumore, sangue, urine e feci, analizzati prima e dopo le somministrazioni di anticorpi. Tra i vari fattori che stiamo studiando c’è anche il microbiota intestinale che, in alcuni casi, potrebbe essere connesso con una migliore risposta all’immunoterapia».
L’utilizzo dell’immunoterapia nel trattamento del tumore al fegato è una rivoluzione. Per anni, infatti, abbiamo vissuto con la totale assenza di terapie. Recentemente, invece, c’è stato il boom di trattamenti immunoterapici per il tumore al fegato avanzato o metastatico che ha permesso di aumentare di moltissimo la sopravvivenza di pazienti, anche incurabili. «La prossima sfida che stiamo cercando di cogliere all’Imperial College di Londra – conclude Antonio D’Alessio – è proprio quella di utilizzare l’immunoterapia anche in fase precoce, con un approccio multidisciplinare, in collaborazione con chirurghi e radiologi. Come abbiamo già potuto constatare in fase preliminare, questo permette di ridurre il diametro tumorale, diminuire potenzialmente il numero di recidive e, grazie ad analisi traslazionali, potrebbe portare all’individuazione di biomarker per stabilire in anticipo quali potranno essere i pazienti che risponderanno meglio all’immunoterapia».