Il Dott. Antonio D’Alessio, specializzando in oncologia, è il vincitore della borsa di studio dell’European Association for the Study of the Liver
Prima l’Erasmus, anzi, due: uno a Valencia e uno a Bruxelles. E ora, da circa due mesi, vive a Londra. Antonio D’Alessio, 29 anni, napoletano, medico specializzando al quarto anno di oncologia presso l’Humanitas University ha vinto la borsa messa in palio dalla European Association for the Study of the Liver e che gli consentirà di approfondire i suoi studi sul tumore al fegato all’Imperial College di Londra. Un risultato non scontato visto che la società che offre la borsa di studio si occupa di epatologia e ha voluto premiare, quest’anno, non un epatologo in senso stretto ma un oncologo che tratta il cancro del fegato. «È una grande soddisfazione aver vinto, visto che è una borsa molto ambita, che raccoglie sempre molti partecipanti. E poi sono davvero entusiasta di poter studiare un ambito così innovativo come quello dell’immunoterapia, per di più in un ambiente come quello dell’Imperial College, che è molto stimolante», commenta D’Alessio, che nel college inglese lavora sotto la supervisione del Dottor David James Pinato, oncologo e ricercatore dell’ateneo inglese. A instradare D’Alessio è stata la sua professoressa, Lorenza Rimassa direttrice della Scuola di Specializzazione di Oncologia Medica di Humanitas University.
«Il mio – spiega D’Alessio – è un progetto di ricerca traslazionale che si basa su uno studio molto innovativo: l’uso della immunoterapia in fase precoce sui pazienti affetti da cancro al fegato e che devono sottoporsi a intervento chirurgico». L’immunoterapia, da strategia consolidata per altri tipi di tumore, è infatti diventata una realtà anche per la cura del cancro al fegato. Grazie al suo meccanismo di azione, che permette di potenziare il sistema immunitario contro le cellule tumorali. E si sono ottenuti risultati senza precedenti nella lotta al cancro. Purtroppo, però, solo una minoranza di pazienti beneficia di questo trattamento. D’Alessio indagherà proprio questo aspetto: «Analizzeremo i campioni dei pazienti che hanno avviato il percorso immunoterapico e che poi hanno subito l’intervento chirurgico. In questo modo, vedremo direttamente cosa cambia nel tessuto tumorale dopo l’immunoterapia e cosa è successo a coloro che non hanno risposto. Inoltre, analizzeremo altri campioni biologici di pazienti, come sangue, urina e feci. In particolare, indagheremo se diversi batteri nelle feci, il cosiddetto microbiota, sono associati a una diversa risposta all’immunoterapia».
A differenza della chemioterapia tradizionale, che si basa sull’uso di sostanze «tossiche» che uccidono le cellule, il trattamento immunoterapico serve a stimolare il sistema immunitario che, una volta stimolato, reagisce e combatte il tumore. «Un approccio completamente diverso: nel nostro studio si fanno due somministrazioni di due immunoterapici diversi a distanza di tre settimane l’una dall’altra. In modo tale che il paziente nell’arco di un mese e mezzo viene sottoposto a chirurgia. E ovviamente, dopo l’intervento, si procede con il follow-up per vedere come evolve la situazione. L’obiettivo è di riuscire così a ridurre le recidive dopo la chirurgia, che purtroppo sono molto frequenti. Capire quali pazienti rispondono all’immunoterapia, e perché, è la sfida cruciale nella lotta contro il cancro», racconta D’Alessio.