Dalla specializzazione all’emergenza per Covid-19: «Noi giovani possiamo dare un aiuto in più!»
Vincenzo Craviotto, 29 anni, è nato a Voghera e si è laureato in Medicina all’Università di Pavia. È al quarto anno di specializzazione presso Humanitas University ed è uno dei tanti giovani dottori che hanno scelto di scendere in campo in questo momento di emergenza per Covid-19.
Siamo riusciti a contattarlo al telefono, tra un turno e l’altro, per farci raccontare la sua storia.
Lei svolge la specializzazione in gastroenterologia. C’è un motivo particolare per cui ha scelto questa branca della medicina?
«Per quello che ho vissuto finora nella mia carriera, prima universitaria e ora didattica in ambito ospedaliero, ho capito che la passione per questa professione ti viene trasferita da qualcuno che vedi come maestro. A me è successo proprio così, al quinto anno di università sono stato per un certo periodo in Francia, a Grenoble, e per me è stata un’esperienza determinante, che grazie anche al tutor che mi era stato assegnato, mi ha fatto appassionare alla materia che avevo scelto, appunto la gastroenterologia. Al ritorno a Pavia ho deciso di laurearmi in questa branca e la mia è stata una scelta felice perché gli insegnanti che mi hanno seguito hanno saputo appassionarmi ancor più agli aspetti gastroenterologici».
Lei è al quarto anno di specializzazione in Humanitas, quali sono le sue impressioni sul percorso fin qui affrontato?
«Penso sia un corso molto formativo, che richiede grandi capacità di mettersi in gioco e molto impegno e che è in grado di restituirti quello che dai. Abbiamo la fortuna, noi di gastroenterologia, di far parte di un gruppo capeggiato da professori di prim’ordine e molto affiatato sia con gli altri specializzandi, sia con i medici con cui collaboriamo. Questo ti permette di essere più stimolato e ti mette nella condizione di imparare e lavorare al meglio».
Quale posto occupa in una sua personale scala di valori, il rapporto con il paziente?
«Devo dire che è tra gli aspetti lavorativi che più mi hanno coinvolto. Da studente non hai molte occasioni per instaurare un rapporto personale con il paziente. Ed è comprensibile, perché anche da quel punto di vista ci sono molti aspetti da imparare e solo all’ultimo anno si è in grado di gestire situazioni che possono essere anche complesse, individuando con autonomia come deve essere fatta una certa comunicazione col paziente, adottando un registro che non può essere unico per tutti, ma deve tener conto della personalità e della condizione in cui si trova in quel momento la singola persona».
Parliamo della sua partecipazione all’emergenza per Covid-19. È stata una scelta volontaria?
«È successo tutto molto rapidamente. Nell’arco di una-due settimane l’ospedale Humanitas di Rozzano è stato stravolto ed è stato in buona parte convertito per l’emergenza anti-Coronavirus, per cui, man mano che venivano aperti reparti specifici dedicati a pazienti con polmonite da Covid-19 c’era un bisogno crescente di personale che prestasse assistenza. Un mio professore, conoscendo anche la mia inclinazione un po’ più internistica rispetto ad altri colleghi del quarto anno, mi ha chiesto se ero disponibile a dare una mano in reparto. Assolutamente sì, ho accettato senza avere il minimo dubbio».
Quale attività svolge, nel dettaglio?
«Faccio parte dello staff che accoglie in ospedale i pazienti che hanno già una diagnosi di positività al Covid-19 e tutti quelli che pur essendo negativi al tampone presentano un quadro clinico tipico da Covid-19, caratterizzato da febbre alta e difficoltà respiratorie. Sono tutti pazienti molto delicati, che vengono ricoverati in stanze singole e vengono sottoposti ad accertamenti più invasivi e specifici, che permettano di fare una diagnosi più accurata. Bisogna ricordare che il contagio a questo virus può provocare non solo polmoniti, ma anche altre problematiche come quelle cardiache, per cui, dal punto di vista diagnostico è necessario agire su più fronti».
Sotto il profilo professionale e umano, che cosa le sta lasciando questa esperienza?
«Per prima cosa sono impressionato del livello organizzativo di Humanitas: ho visto come in pochi giorni si possa rivoluzionare un intero ospedale, quello di Rozzano. Poi ho notato come nessuno dei miei colleghi mostri la minima esitazione in quello che facciamo quotidianamente, aspetto che ti dà una gran forza per continuare. Quando ne parliamo, quando ne discutiamo, nessuno esprime mai alcuna perplessità sul fatto di doversi mettere in gioco in un’attività tanto delicata. Non so quanto durerà tutto questo e che fine faranno i reparti nuovi creati nell’ospedale, so solo che in questa situazione, avendone le capacità, mi sento di dare una mano fino a quando servirà».
La vostra è una categoria oggi messa a dura prova, molto esposta ai pericoli del contagio. Non prova timore per la sua salute?
«Non so dire se ho paura o se non ce l’ho. Penso solo che siamo giovani e che se c’è qualcuno che può dare un aiuto in più, quelli siamo proprio noi. Lavoriamo gomito a gomito con persone – i primari, i responsabili di reparto, molti infermieri – che sono più anziane di noi e quindi sono anche più a rischio e le vediamo ogni giorno, ogni momento, lavorare instancabilmente al servizio dei pazienti. Se lo fanno loro, senza battere ciglio, come potremmo non farlo noi?».