Coronavirus: il progetto di ricerca degli studenti MEDTEC
Se c’è una attività che il COVID-19 ha consentito di sviluppare è indubbiamente quella della ricerca scientifica. Ne è un esempio il nuovo progetto di ricerca che gli studenti della MEDTEC School di Humanitas University hanno condotto durante il secondo semestre dell’anno accademico 2021-2022. Il progetto era rivolto agli studenti del secondo anno che hanno frequentato il corso di “Molecular and Computational Biology and Medical Genetics”. Il lavoro di ricerca è stato coordinato dalla professoressa Rosanna Asselta associata di Genetica Medica nonché vicedirettrice del Dipartimento di Scienze Biomediche e il professor Stefano Duga ordinario di Biologia.
«Il corso di “Molecular and Computational Biology and Medical Genetics” è alla sua prima edizione e ci sembrava interessante proporre agli studenti delle attività pratiche che riguardassero l’uso di dati reali nella ricerca attraverso gli strumenti appresi a livello teorico durante le lezioni. In più, volevamo scegliere un taglio preciso per questo progetto e, essendo ancora in piena pandemia COVID-19, abbiamo voluto approfondire il ruolo dei geni coinvolti nella coagulazione. Come sappiamo, l’aspetto trombotico è molto importante nella patogenesi delle forme clinicamente rilevanti di COVID-19», spiega il professor Duga. I trenta studenti che hanno partecipato a questo progetto si sono occupati di analizzare trentadue geni dell’emostasi: ogni studente, in sostanza, si è occupato in modo molto approfondito di uno specifico gene.
«Abbiamo messo a disposizione degli studenti i dati raccolti in questi mesi nei pazienti affetti da SARS-CoV-2 e ricoverati presso l’Istituto clinico Humanitas di Rozzano, il Gavazzeni di Bergamo e il San Gerardo di Monza. A questi si sono aggiunti 1700 soggetti appartenenti alla popolazione generale che sono serviti come controlli. I nostri allievi hanno avuto un ampio dataset suddiviso per cromosomi, così da rendere la gestione dei dati più semplice», chiarisce la professoressa Asselta. «Infatti, la mole totale di dati corrispondeva a circa otto milioni di varianti nucleotidiche del genoma per ciascuno dei 2000 individui analizzati, di cui 332 erano casi gravi di COVID-19».
Il progetto di ricerca ha avuto come obiettivo quello di verificare gli sbilanciamenti nella frequenza di determinate varianti fra casi e controlli. «Se si trova uno sbilanciamento», spiegano Duga e Asselta, «allora si può dire che quella variante (polimorfismo) è associata alla malattia». Tra i risultati più interessanti c’è quello che riguarda almeno quattro dei 32 geni selezionati: «Sembrerebbe, infatti, che varianti specifiche in questi quattro geni conferiscano un rischio maggiore nello sviluppo di sintomi gravi del COVID-19. Sulla base di questo, abbiamo costruito uno score poligenico (ovvero una sorta di “punteggio” basato sulla presenza di varianti genetiche di rischio) per classificare i pazienti in base al loro rischio genetico di sviluppare una forma grave di malattia. Ecco, nei casi estremi, quello che abbiamo appurato è che i pazienti che hanno cinque varianti che aumentano il rischio, hanno due volte e mezzo in più la probabilità di contrarre una forma grave di COVID-19 rispetto alla popolazione generale».
Uno degli aspetti che ha elettrizzato gli studenti è il fatto che i risultati di questo progetto di ricerca sono stati pubblicati sulla rivista internazionale Journal of Personalized Medicine con i loro nomi fra gli autori, un grande risultato per degli universitari che frequentano il secondo anno di corso.