Alzheimer: a che punto è la Ricerca di nuove terapie


Sabato 21 settembre 2024 si è celebrata la Giornata Mondiale dell’Alzheimer, istituita nel 1994 dall’Organizzazione mondiale della sanità e dall’Alzheimer’s Disease International. La malattia neurodegenerativa, i cui numeri sono destinati a crescere globalmente con l’invecchiamento della popolazione e per cui non esistono ancora terapie efficaci, costituisce una sfida sanitaria globale.

Per fortuna la Ricerca non si ferma: nuove scoperte in laboratorio stanno rivelando il ruolo dell’infiammazione e dell’attivazione immunitaria nell’insorgenza e nel progresso della malattia. La speranza è che queste scoperte possano aprire la strada allo sviluppo di approcci terapeutici e preventivi più efficaci.

Ce ne parla Michela Matteoli – Professoressa Ordinaria di Humanitas University e Direttrice del Programma di Ricerca in Neuroscienze di Humanitas – che nel suo laboratorio studia il legame tra infiammazione e neurodegenerazione, e in particolare il ruolo delle cellule immunitarie del cervello, la microglia, nelle malattie dell’invecchiamento e del neurosviluppo.

Cos’è l’Alzheimer?

L’Alzheimer è la forma più comune di demenza, una malattia neurodegenerativa che comporta la progressiva morte dei neuroni e la conseguente perdita delle funzioni cognitive, fino alla totale compromissione dell’autonomia del paziente. Costituisce circa il 60% di tutti i casi demenza.

In Italia ci sono più 600 mila pazienti con Alzheimer, un numero destinato a raddoppiare entro il 2050 per via dell’aumento dell’età media della popolazione – un fenomeno comune a tutti paesi industrializzati. Ecco perché trovare delle terapie efficaci in grado di prevenire o rallentare il decorso della malattia è fondamentale.

I farmaci attualmente in uso in Europa sono di tipo sintomatico e hanno un effetto modesto, solo nelle fasi iniziali della malattia e non in tutti i pazienti. Si tratta di farmaci che agiscono aumentando o riducendo la trasmissione del segnale tra diverse tipologie di neuroni, a seconda di come questa trasmissione viene alterata dalla patologia, ma non agiscono sui meccanismi alla base della patologia. I tentativi di superare l’approccio sintomatico e agire all’origine, finora concentrati sulla riduzione delle placche di beta-amiloide, non hanno dato i risultati sperati.

I limiti delle terapie contro la beta-amiloide

Per molti anni, la ricerca si è concentrata sull’eliminazione delle placche di beta-amiloide, un accumulo di proteine a lungo considerato il principale responsabile della degenerazione neuronale.

Tuttavia, nonostante gli sforzi delle principali aziende farmaceutiche, i tentativi di rallentare la patologia utilizzando anticorpi monoclonali capaci di attaccarsi e degradare la proteina beta-amiloide hanno avuto uno scarso successo. Il primo di questi farmaci a essere approvati dall’FDA americana nel 2021 è stato aducanumab, ma a causa di dati di efficacia poco convincenti e di importanti effetti collaterali associati al trattamento, la sua produzione e distribuzione è stata interrotta dalla stessa azienda produttrice.

Altri farmaci simili approvati dall’FDA sono lecanemab e donanemab. Pur presentando entrambi effetti collaterali significativi, sembrano anche più efficaci di aducanumab nel rallentare la progressione della malattia. Si tratta comunque di effetti clinici lievi, tanto che l’EMA, l’agenzia del farmaco europea, ha deciso di non approvare al commercio lecanemab (non si è ancora espressa invece sul più recente donanemab, approvato negli USA solo a luglio 2024).

C’è ormai un consenso sul fatto che la riduzione delle placche amiloidi da sola non è sufficiente a bloccare o rallentare la malattia e non sempre si associa un effetto clinicamente significativo. Se anche questi anticorpi monoclonali funzionassero meglio nelle fasi precoci di malattia, senza importanti effetti collaterali, non vi è dimostrazione che possano essere altrettanto efficaci nelle fasi più avanzate dell’Alzheimer,” afferma Matteoli. “È chiaro che gli attori coinvolti nella malattia sono molteplici: per questo motivo bisognerà riflettere sulla possibilità di impiegare nuove strategie combinate, rivolte non solo contro la proteina beta-amiloide ma anche contro altri target e meccanismi molecolari.

Il ruolo dell’infiammazione

Negli ultimi anni, la comunità scientifica ha iniziato a esplorare altri meccanismi alla base della malattia, come l’infiammazione cerebrale. Man mano che i neuroni si deteriorano rilasciano fattori che innescano una cascata infiammatoria e l’infiammazione viene poi ulteriormente amplificata dalla microglia che circonda le placche proteiche.

Gli studi sulla genetica dell’Alzheimer hanno ulteriormente amplificato questo interesse per l’infiammazione: due ricerche fondamentali pubblicate sul New England Journal of Medicine hanno dimostrato che le varianti di diversi geni attivi nella risposta della microglia aumentano il rischio di sviluppare l’Alzheimer. In particolare un gene chiamato TREM2 – su cui stiamo concentrando i nostri sforzi di ricerca – aumenta il rischio di sviluppare la malattia di 2-3 volte e potrebbe in futuro diventare un potenziale target terapeutico,” afferma Matteoli. 

Ma c’è di più: la suscettibilità alla malattia di Alzheimer potrebbe essere legata a doppio filo a quello che accade nelle fasi di sviluppo del cervello. Mutazioni in TREM2 potrebbero infatti rendere le aree del cervello deputate alla memoria più suscettibili alla neurodegenerazione, come alcuni recenti studi condotti nei laboratori di Humanitas suggeriscono.

Nuove prospettive: terapie combinate e stili di vita

“La chiave per combattere efficacemente l’Alzheimer sarà probabilmente una combinazione di farmaci che agiscano su diversi meccanismi contemporaneamente: dalla beta-amiloide all’infiammazione,” sottolinea Matteoli. Accanto a queste nuove terapie, adottare stili di vita che riducano l’infiammazione cronica è fondamentale. “Una dieta sana, l’attività fisica regolare e un sonno di qualità sono tutti fattori che possono aiutare a mantenere basso il livello di infiammazione, rallentando l’invecchiamento cerebrale e riducendo il rischio di Alzheimer.

Il progetto AllenaMENTE – che partirà in Humanitas e consoliderà l’esperienza di un precedente studio di ricerca, svolto in collaborazione con il CNR, Train the Brain –  promuove proprio questo approccio integrato: mantenere attivo il cervello attraverso esercizi mentali e fisici che aiutano a prevenire il declino cognitivo e studiare come questi esercizi influenzano i livelli infiammatori.

HUMANITAS GROUP

Humanitas è un ospedale ad alta specializzazione, centro di Ricerca e sede di insegnamento universitario. Ha sviluppato la sua organizzazione clinica istituendo centri di eccellenza specializzati per la cura dei tumori, di malattie cardiovascolari, neurologiche e ortopediche – oltre che un centro oculistico e un fertility center.