Un sorriso è per sempre


L’idea di aderire al progetto Jarom ha iniziato a prendere forma nell’aprile del 2019.

Da tempo si pensava di andare all’estero per poter conoscere nuove realtà e offrire il nostro aiuto in quanto studentesse di medicina; proprio questa primavera ci si è presentata la possibilità di prendere parte a un nuovo progetto attraverso la guida di Paolo, Padre Dottrinario, che nel 1999 ha iniziato, con il supporto della congregazione, una missione e un conseguente progetto umanitario in India, nello stato del Jharkhand, nella parte nord-orientale della nazione. L’iniziativa è partita con una sede a Ranchi, capitale dello stato, per poi spostarsi in una zona più rurale, il Villaggio di Jareya, per favorire l’alfabetizzazione del popolo di contadini e allevatori.

Lo scorso aprile, Paolo è tornato in Italia per una riunione e così abbiamo avuto modo di parlargli e di condividere con lui la nostra idea riguardo al progetto medico-umanitario nella sua missione.

Sin da quando abbiamo cominciato a frequentare il corso di Medicina e Chirurgia abbiamo avuto come scopo personale l’idea dell’aiuto e della presa in carico della persona, e il curare prima ancora del semplice guarire o aggiustare qualcosa che non funziona.

Il nostro sguardo è sempre stato rivolto verso quei paesi dove le situazioni sono differenti, il contesto diverso e le persone da aiutare sono proprio quelle che hanno molto bisogno ma non chiedon,o a differenza di altre che invece vivono in un contesto di agevolazioni e cure continue.

La professione medica è, a nostro avviso, una conoscenza che diventa un dono. Per svolgerlo pienamente, il medico deve uscire dalla propria confort-zone, per andare a cercare i pazienti più bisognosi, mettendosi a loro disposizione in un atto di puro altruismo.

Un’esperienza come quella del volontariato non va, tuttavia, considerata come semplice atto di dono agli altri; quello di cui ci siamo accorte, nel metterci alla prova in un’esperienza come quella vissuta in India, è proprio che fare volontariato significa mettersi in contatto con le fragilità degli altri, ascoltandoli e comprendendoli indipendentemente dalle barriere linguistiche, e che sono gli altri che spesso ci possono insegnare e dare tanto. Fare volontariato consente di osservare a fondo le persone che ci circondano, di cercare un sorriso, una smorfia di dolore, i segni di una debolezza o una paura nascosta; le fragilità altrui non sono le uniche con cui ci si confronta: anche le nostre fragilità e debolezze sono infatti emerse giorno dopo giorno; stando a contatto con il nuovo e il diverso abbiamo imparato molto e riscoperto la gioia di giocare insieme, la bellezza dell’antico, un po’ come se fossimo tornate alla nostra infanzia.

Ci siamo trovate in un contesto estraneo, lontano da tutto quello a cui siamo sempre state abituate: famiglia, amici, comodità, accesso internet e acqua potabile.

Ci siamo dovute abituare a un nuovo contesto fatto di continui confronti fra la realtà a cui eravamo abituate e la realtà in cui vivono queste persone giorno dopo giorno; questo è stato per noi un dono che ci ha aiutate a riscoprirci e a comprenderci più a fondo, oltre a darci una spinta per il futuro.

Rimanere immobili è facile. Il servizio ti mette, invece, nella condizione di dover agire, pensare in fretta, trovare soluzioni.

Tutti gli strumenti che noi troveremmo comodamente nell’ospedale dietro casa, in un paese come l’India possono significare un viaggio di 8 ore in pullman alla ricerca di una clinica in grado di comprendere il problema e di curare la persona, sempre con la speranza che il costo non sia proibitivo.

Fare volontariato ci ha permesso di divertirci, conoscere persone nuove e fare amicizia in un contesto di apprendimento che fa crescere dal punto di vista professionale e umano. Ci ha permesso di mettere a frutto capacità e conoscenze, rimanendo attive e sviluppando la nostra personalità. Siamo entrate nella modalità del “ricevere” lavorando sulla nostra sensibilità ed empatia, senza mai scordare la bellezza e la pienezza che regala il sorriso di un paziente che dopo  8 ore su un pavimento sporco di un ospedale governativo, in attesa di una visita medica, è diventato un amico… ed è proprio quel sorriso che ti riempie così tanto di gioia che sei tu a sentirti in dovere di dire grazie: “Grazie per la fiducia che hai riposto in me, grazie per avermi creduto all’altezza di trovare una soluzione ai tuoi dolori e grazie per non aver rinunciato a lottare”.

La nostra esperienza è stata progettata in modo tale da avere uno spazio per fare prevenzione primaria, grazie ai check-up giornalieri effettuati nel dispensario medico. Dalle 8 del mattino fino alle 10 ci occupavamo delle visite dei ragazzi della Nawa Maska School, una scuola di circa 750 alunni, tra bambini delle 4 classi dell’asilo e ragazzi di elementari e medie (dalla I alla X classe). Ogni giorno i ragazzi arrivavano al dispensario a piccoli gruppi dove il team medico aveva il compito di compilare delle schede con la anamnesi remota e famigliare, seguita da una visita comprensiva di: peso/ altezza/ problematiche attive, se presenti/ esame della vista ed esame obiettivo completo di addome, cuore e polmoni.

In quanto studentesse abbiamo affiancato il team per tutta la durata del nostro percorso nel Villaggio di Jareya, eseguendo gli esami obiettivi e occupandoci dell’aggiornamento delle cartelle cliniche.

Questo lavoro, portato avanti con costanza, consente alla scuola di avere un registro dei bambini, delle loro caratteristiche e problematiche e di poter intervenire in modo efficace su varie possibili difficoltà, così come di poter dare una mano, anche dal punto di vista economico, a chi necessita di supporto.

Verso le 10 del mattino si partiva con la Jeep per raggiungere ogni giorno un diverso villaggio, con lo scopo di visitare chiunque ne avesse bisogno.

La popolazione indiana non gode di un’assicurazione sanitaria e gli ospedali, anche quelli governativi a basso costo, si trovano per lo più nelle capitali o nelle grosse città dello stato; le persone si trovano spesso nell’impossibilità di raggiungerli e da 3 anni la scelta della missione è stata quella di offrire presso il villaggio di residenza una prima valutazione sanitaria evitando così il ricordo agli sciamani locali che invece di curare truffano e raggirano.Una volta raggiunto il villaggio si seguiva uno schema ben consolidato: si scendeva dalla Jeep, ci si presentava e si attendeva. Poco dopo qualcuno di avvicinava portando con sé delle sedie per noi, che venivano posizionate nel centro del villaggio, in quella che potrebbe essere ritenuta la piazza principale; noi ci sedevamo e attendevamo che qualche curioso si facesse avanti.

Ci è capitato di aspettare anche mezz’ora prima di iniziare a visitare qualcuno, non perché non ci fossero pazienti, ma perché le persone in India sono spesso titubanti e spaventate dalle novità.

Nulla accadeva fino a che il capo o il più anziano si avvicinava a noi per essere visitato. Allora era come se qualcosa si sbloccasse: uno dopo l’altro si sedevano sulla sedia di plastica raccontando, nella propria lingua complessa, il problema; c’era chi effettivamente necessitava di una visita medica e chi invece veniva per un semplice check-up.

Abbiamo visitato dai bambini agli anziani, incontrando molte malattie di natura articolare strettamente legate al lavoro che questi svolgono nel proprio villaggio, quali la coltivazione di riso ed ortaggi ed il trasporto di carbone o canne di bamboo. Altre patologie rilevate erano di origine cardiaca o infettiva; non mancavano, inoltre, infezioni batteriche e virali. Una volta finite le visite si tornava a Jareya dove, nel pomeriggio, si metteva in ordine il dispensario, si faceva l’inventario dei farmaci o si organizzavano giochi con i bambini della scuola.

Un altro aspetto fondamentale per il nostro servizio è stata la programmazione del trasporto in ospedale di alcuni pazienti critici: una mattina, almeno due volte alla settimana, si passava nei villaggi a prendere i pazienti e poi si partiva verso gli ospedali della capitale. Questo ci ha permesso di approfondire le nostre capacità diagnostiche, confrontandoci fra di noi e successivamente con i medici del team e con quelli dell’ospedale stesso. Ci siamo anche occupate di organizzare lezioni di igiene primaria ed educazione sessuale per alcune classi della scuola. L’ignoranza in tema di sessualità è impressionante e deriva per lo più dal contesto culturale nel quale i ragazzi sono immersi: dell’intimità non si parla e non si deve parlare.

Sicuramente abbiamo riscontrato non poche difficoltà al tradurre alcune domande sul ciclo mestruale, piuttosto che sull’attività sessuale, fatte dai ragazzi della VIII classe. Gli insegnanti di lingua inglese hanno avuto l’incarico di interpretare le nostre frasi e di riportarle in hindi ai ragazzi che non erano in grado di comprendere l’inglese. Ci siamo accorte che le più confuse e inibite sono proprio le ragazze, che vivono con austera riservatezza e quasi vergogna il loro essere donne.

Ci sono stati infiniti momenti di questa esperienza che portiamo nel cuore, ma quello che forse ci ha maggiormente colpite emotivamente, e forse che potrà fare la differenza nel nostro percorso professionale, è sicuramente l’episodio in cui una mattina, durante la preghiera, una ragazza di 14 anni, è svenuta. Ci siamo precipitate, abbiamo preso il polso, controllato se fosse sudata e se avesse sbattuto la testa e nell’esatto istante in cui le abbiamo alzato le gambe per far sì che si riprendesse, sono cominciati i movimenti spastici di testa, braccia e gambe. Improvvisamente ha serrato la mascella ed è andata in apnea. La dottoressa della missione non era ancora arrivata e noi non sapevamo come comportarci in una situazione del genere.

Abbiamo organizzato un trasporto d’urgenza in ospedale, e una volta arrivate in pronto soccorso, essendo passata quasi un’ora dall’inizio dell’episodio, la ragazza si era calmata e ricominciava a rispondere.

Abbiamo passato l’intera giornata con lei in ospedale in attesa dei suoi genitori. Abbiamo cercato di parlare con i medici per capire il percorso da fare e le possibili diagnosi differenziali; il reparto pediatrico dove è stata ricoverata per accertamenti era al completo: i letti erano pieni, ognuno contava 3-4 persone tra paziente e famigliari, nei corridoi erano stesi dei materassi lungo le pareti affinché i pazienti in sovrannumero si potessero sdraiare in attesa della terapia, che veniva somministrata appendendo le sacche di fisiologica o le boccette di medicinali ad aste arrugginite o addirittura alle ringhiere esterne alle finestre. L’aria sapeva di urina, muffa e alcool.

Sono state 10 ore di grande agitazione. Noi non sapevamo cosa fare e ci siamo sentite completamente impotenti. La ragazza è poi rimasta in ospedale 3 giorni, quando i genitori hanno scelto di farla dimettere senza una diagnosi definitiva, in quanto erano convinti che fosse posseduta da uno spirito, dal momento che anche la sorella aveva sofferto in passato di crisi di questo tipo.

L’aspetto culturale e le credenze di queste persone non vanno mai sottovalutate e, anzi, vanno comprese e studiate se si vuole convincerli del contrario.

Questo è un passaggio fondamentale da fare per chi vuole andare in un posto come l’India per fare volontariato.

Esperienze del genere scardinano e riordinano il valore che viene dato alle cose e alla propria vita.

Se dovessimo descrivere quest’esperienza in tre parole la definiremmo certamente difficile, poiché ci ha obbligate a confrontarci con noi stesse e con un contesto completamente diverso da quello a cui siamo abituate; gratificante,  poiché sapere di star facendo la cosa giusta aiutando gli altri e ricevere indietro un gesto di gratitudine è un emozione indescrivibile; la terza parola è umiltà, poiché ci rendiamo conto di essere piccoli nel mondo e di avere ancora moltissimo da imparare a partire dai nostri pazienti.

 

 

 

HUMANITAS GROUP

Humanitas è un ospedale ad alta specializzazione, centro di Ricerca e sede di insegnamento universitario. Ha sviluppato la sua organizzazione clinica istituendo centri di eccellenza specializzati per la cura dei tumori, di malattie cardiovascolari, neurologiche e ortopediche – oltre che un centro oculistico e un fertility center.